Per una foresta felice

Questa notte ho fantasticato: ero un giovane congolese al suo primo giorno di lavoro, ero contento; la motosega potente e un dollaro al giorno erano una cosa meravigliosa… Ero nella foresta e il mio lavoro era abbattere alberi secolari, abbatterli, uno dopo l’altro, per il verso giusto…

Ieri sera non ho mangiato pesante ho solo letto il reportage di Giampaolo Visetti sulle foreste del Congo, pubblicato su Repubblica del 10 novembre 2007 (ebbene sì, leggo i giornali con settimane di ritardo!). I termini della questione sono semplici: il mercato del mondo ricco chiede legname prezioso, le aziende si industriano e saccheggiano laddove è più facile saccheggiare: dove non ci sono o quasi regole e controlli, dove basta poco per avere in pugno vite e ricchezze incalcolabili.

Logica della sopravvivenza + logica del profitto = una miscela apparentemente invincibile.

Mesi fa vidi, con i miei figli, il documentario della National Geographic Society Megatransect. Un reportage assolutamente eccezionale della traversata (più di tremila chilometri a piedi) da Makao, in Congo fino alla costa atlantica del Gabon. L’ha compiuta tra il 1999 e il 2000, armato di scarponi e videocamera, il biologo Michael Fay, un ostinato naturalista al limite della sconsideratezza in grado di documentare come nessuno la vita di questa immensa foresta pluviale africana.

Foresta che nasconde tesori di farmaci e veleni, speranze e trappole mortali, tutto insieme, tutto mescolato e pulsante; è un orrore splendido ciò che si scopre avventurandosi in questi luoghi. Fay li attraversa come un mistico in preda all’ estasi, Fay rischia la vita, continuamente, rischia e vince, vince la sua paura, vince un legame indissolubile ed unico con la natura. Fay però non vince il destino della foresta, segnato, di fronte all’onda del tempo…

Mulinando pensieri, nel tentativo di una risposta mi è venuta alla mente una paginetta di Tiziano Terzani dal suo libro Un altro giro di giostra. La foresta di Tiziano è quella nepalese, è una foresta dove l’uomo ha posto rade dimore e non si è impegnato in quella logica del profitto tanto perseguita altrove. Qui sono rimaste le belve feroci, gli alberi monumentali, ci sono i veleni e i tesori ma a differenza della foresta documentata da Fay i tesori sono anche umani, si trovano esperienze e racconti che testimoniano relazioni ricche e vive con l’ambiente.

Leggendo il racconto si può azzardare il pensiero che, attraverso un intenso rapporto con la natura, una piccola comunità umana possa coltivare barlumi di felicità: si può azzardare l’ipotesi che ciò possa donare a tutti una chance di vita condivisa. L’idea meravigliosa che, per una volta,  si accantoni  la dura morale dello Scorpione e della Rana e la versione umana del veleno, la cupidigia.

Lo scorpione e la rana

… e la foresta mantenne le sue millenarie promesse. Bastò incamminarsi e a ogni passo si animava di più, diventava più misteriosa, più sacra. Gli alberi parevano le navate di un’immensa cattedrale, il sole filtrava obliquo tra le fronde come attraverso magiche vetrate. Presto attorno a noi non c’era più niente che ci ricordasse il nostro tempo. La sola traccia umana era il sentiero che ora saliva, ora precipitava m una forra oscura per poi salire di nuovo, sempre più su, sempre più in alto. Gli alberi erano antichi: i lecci, barbuti di muschio e licheni che pendevano dai rami contorti; i rododendri giganti dalle cortecce di infinite sfumature di grigio, rosa e violetto; ogni pianta aveva la sua personalità, la sua storia, cicatrici di fulmini e incendi impresse nei tronchi secolari.

Quella sulle pendici dell’Himalaya era la foresta di tutte le leggende. Ogni erba poteva essere una medicina, ogni anfratto il rifugio di un sant’uomo, ogni buca la tana di un orso o di un leopardo; non siamo più abituati a tanta naturale maestà e lo stupore, assieme a una leggera inquietudine, ci tolse la parola. Camminammo in un religioso silenzio, attenti al frusciare delle foglie, allo scalpicciare lontano di un animale, al grido di un uccello. La foresta bisbigliava di mille vite e tutte assieme di una sola.

Salendo su per una montagna si pensa spesso alla ricompensa che se ne avrà; se non altro quella di guardare il mondo dall’alto Per noi la sorpresa venne prima. In mezzo al bosco vedemmo un muro di grosse pietre coperte di borraccina, poi un cancello di ferro, arrugginito e chiuso.
Lo aprii. Passammo fra due imponenti alberi che stavano come di guardia ai lati del sentiero; facemmo ancora una cinquantina di passi; la foresta finì, il sentiero curvò e, inaspettato, in piena luce, ci apparve un anfiteatro di prati verdissimi a terrazze; in alto, come sull’ultimo spalto, in sella al monte, la sagoma di un camino, di un tetto, di una casa acquattata all’ombra di alti cedri.

Tutto divenne improvvisamente immobile e silente come non fosse più vero, ma dipinto su una grande tela in cui noi per incantesimo stavamo per entrare…

Terzani, T., Un altro giro di giostra, Longanesi & C., Milano, 2004. p. 508

Un saluto grande 🙂

P. S.

Per ulteriori informazioni sulla foresta del Congo cliccate qui.

Comments
3 Responses to “Per una foresta felice”
  1. luciana moretto ha detto:

    Penso che una sorta di Eden primordiale sia un archetipo iscritto nel nostro DNA, intendo di noi umani.
    Càpita – a volte o magari spesso – di metterlo a confronto con la cruda realtà del nostro infausto tempo (realtà che io chiamo dell’ABC: Asfalto-Bitume-Cemento ).Ne consegue quello stato di frustrazione che tutti – più o meno consapevolmente
    ben conosciamo.
    C’è chi ha il coraggio di abbandonare tutto per un ‘ altrove ‘ che assomigli almeno un po’ a quello descritto da Terzani ( lui appunto e
    pochi altri ).
    A chi resta non resta che la nostalgia.
    Un caro saluto Luciana

  2. Cecilia ha detto:

    Nichiren Daishonin, un monaco buddista vissuto nel Giappone del XIII secolo, fra le altre cose scrisse: “Non ci sono terre pure e terre impure: esiste solo la bontà o la malvagità della nostra mente” e spiegò la relazione di mutua compenetrazione che lega la vita al suo ambiente. La vita è come il corpo e l’ambiente è come l’ombra: se il corpo si piega anche l’ombra è costretta a piegarsi. E spiega anche come l'”ichinen”, il singolo istante di vita, sia in grado di pervadere l’intero universo. Ecco perchè credo nel potere del mio piccolo “qui ed ora e partendo da me”. Senza nostalgia e con grande fiducia: attraverso giardini… 🙂

  3. annarita ha detto:

    Quando non si può abbandonare tutto, almeno cerchiamo di fare il poco che possiamo, in termini di educazione al rispetto per la natura, importante tanto quanto il rispetto per i nostri simili. Rispettare la natura non dovrebbe essere tanto difficile… non è litigiosa, permalosa, maleducata, prepotente 😉 Buona domenica

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